07 giugno, 2013

Lavoro quindi sono.

Oggi ho letto un articolo interessante in cui si ragionava sulle motivazioni di questi strazianti suicidi per la perdita del lavoro.

Fermo restando che io grazie al cielo non so cosa voglia dire rendersi conto di non poter dar da mangiare ai propri figli, nel mio piccolo ho vissuto male, troppo male la perdita del posto di lavoro.

Se nel mio caso non era tanto un problema economico, perchè tanta fatica ad accettarlo? Perchè tanti mesi per curarsi, perchè non è il male, nè la botta, ma putroppo è il livido?

Secondo me si va oltre alla semplice (quando mai?) questione psicologica: oddio mi hanno scaricata/sono inutile/non servo più/faccio schifo.
Queste implicazioni ci sono e sono reali, gravi; io sono stata davvero assalita dal senso di fallimento, dalla sindrome della scarpa vecchia e ci ho impiegato un sacco di tempo per far pace con me stessa per non essere stata in grado di evitare quell'epilogo, ma il problema va un pochino oltre. Va oltre quello che è successo tra me, minuscola Davidina, e la multinazionale, la Golia Maxi.

Ho provato a pensarci.
Il problema sta nel fatto che al giorno d'oggi, nella nostra società, se non lavori, quasi non esisti.
 
Il lavoro ha assorbito pian piano sempre più tempo nelle nostre giornate: chi di noi può permettersi un semplice ed obsoleto orario d'ufficio 9-18 senza sforare mai? Chi di noi lavora senza sobbarcarsi ore di spostamenti? Chi di noi non ha mai pranzato al volo con un panino davanti al pc?
Il lavoro ha cambiato faccia: è diventato una continua lotta. Proliferano i lavori "per obiettivi", i target si alzano anno dopo anno, anche in tempo di recessione e le aspettative dei capi sono sempre più alte, anche a fronte di una congiuntura economica sull'orlo del disastro.
Questo comporta stipendi calcolati sugli obiettivi di cui sopra, stipendi che senza risultati sono da fame, quasi mortificanti. E il circolo riparte, il volano si alimenta: si lavora tanto, si lavora di più, per poter raggiungere gli obiettivi e guadagnare decentemente.
La vita diventa lavoro. Non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare.
Sì, perchè anche alzando un po' il livello, parlando di persone che ricorprono ruoli di responsabilità, la pressione è tale e tanta che certi papà (anche mamme, in alcuni casi) riescono a vedere i figli solo ne weekend, perchè escono troppo presto la mattina e tornano troppo tardi la sera, perchè fanno lunghe trasferte all'estero o in giro per l'Italia, perchè quando finalmente tornano a casa si chiudono nei loro studi a terminare il report, la mail, il forecast, il sadiocosa.
Gli sgabuzzini scoppiano, pieni di hobbies dimenticati, i cassetti sono pieni di sogni impolverati, passioni represse e interessi accantonati perchè non c'è tempo. Ce n'è solo per il lavoro, che ci riempie, ci spreme, ci ingloba in un blob in cui non riusciamo più a distinguerci da lui. Diventiamo il lavoro.

Ed ecco che perdere il lavoro non è solo un problema economico, è un problema di identità: la giornata si svuota, si sgonfia, il tuo posto nella società non c'è più e tu hai l'impressione di essere spersonalizzato, passatemi questo orribile termine. E non è facile ritrovare se stessi, ve lo dico perchè ci sono passata. Anche se si hanno una casa adorabile, un marito meraviglioso e la figlia più dolce al mondo.

Penso che senza essere un economista si possa capire che questa situazione non può durare in eterno. La corda si spezzerà.
Ma nel frattempo, come facciamo per riprenderci le nostre vite?

10 commenti :

  1. Io l'ho vissuta allo stesso modo. Mi sentivo monca. E' stato terribile.
    Dopo, lavori diversi, studi diversi mi hanno fatto capire quanto sbagliassi a identificarmi con ciò che facevo. Ora sono persino grata per quella mazzata, perché mi ha cambiato la vita.

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    1. Simona mi conforti: spero di arrivare anch'io prima o poi alla fase della gratitudine.

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  2. come hai descritto bene la situazione in cui mi trovo. :-(

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    1. Quale? Dello inglobamento lavorativo o della perdita di identità? In ogni caso, spero di tutto cuore che tu possa trovare un equilibrio :)

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  3. Non è solo un sentirsi svuotati ma è anche un dirsi "non servo a questo società" e più che altro "non posso dare il mio contributo per renderla migliore, per farla progredire". Avevamo un ruolo e non l'abbiamo più.

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    1. Già, ci viene a mancare il nostro posto nel mondo, quando invece quello in realtà ce l'abbiamo ancora...e come.

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  4. Eh gia', hai ragione Lizzie, e' proprio cosi. Prima queste depressioni capitavano solo ai pensionati (e ce n'erano che subito dopo aver smesso di lavorare morivano cosi, nel giro di poco tempo, senza un problema di salute, semplicemente qualcosa si spezzava), ora tocca anche ai trentenni. E' proprio sconfortante...

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    1. Caspita è vero. Prima era una sindrome che colpiva solo i pensionati, ora invece dilaga tra i 35-40enni...

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  5. Terribile davvero e grazie per questa riflessione. A 19 anni fui lasciata a casa dall'oggi al domani, lavoravo in nero come centralinista ed era la prassi che quel ruolo fosse di breve durata, un continuo cambio di personale. Non fu bello per niente. Tornai a lavorare dopo circa 2 mesi e ho sempre lavorato ininiterrottamente, ora cerco di tirare il fiato, basta straordinari (perchè non portano a nulla) e non avendo figli riesco a conciliare gli hobby ma mio marito fa orari assurdi, il record 6 del mattino 3 di notte di fila. E secondo me soprattutto nel settore impiegatizio - colletti bianchi, intendo dire non facendo un lavoro artistico, un medico, ecc. e da dipendente non ne vale la pena MAI! Nessuno si fa remore a darti in benservito, anche se fino al giorno prima ti sei ammazzato di lavoro, annullando il tuo privato. un bacio sandra frollini

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    1. Infatti. Quando dovevo cenare in ufficio, fare orari assurdi, fare capodanno in ufficio, ecc...mi ripetevo "ma salvo vite umane???"

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